Diritto ed
Etica
“Doveva essere diverso...è
giusto! È sbagliato!”
La domanda
che ci siamo posti nell’incontro di riflessione su diritto ed etica, organizzato
dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pavia nell’ambito di
interventi definiti dal P.O.T (Piani di Orientamento e Tutorato) è se esiste un
diritto dell’uomo sull’ambiente e in quali forme.
L’umanità ha
iniziato da qualche tempo a riconoscere gli effetti del mancato rispetto e della
scarsa attenzione nei confronti del pianeta. I cambiamenti climatici causati dall’inquinamento,
lo sfruttamento incontrollato delle risorse naturali, sono i temi che la
giovane attivista svedese Greta Thunberg sottopone ad un “patto tra le
generazioni” per il raggiungimento della sostenibilità, che deve essere
ecologica e sociale.
L’Enciclica Laudato
si’, redatta nel 2015 da Papa Bergoglio, evidenzia quanto lo stile di vita
consumistico, soprattutto quando solo pochi possono sostenerlo, potrà portare
distruzione e violenza. C’è bisogno di sincerità e verità nelle discussioni
scientifiche e politiche, ed è necessario prendersi carico di queste
responsabilità, che dal punto di vista etico sono condivisibili e riconosciute,
ma non hanno ancora valore giuridico.
In questo
scenario la prospettiva del diritto canonico può contribuire a far crescere
consapevolezza e responsabilità: favorendo il dialogo fra fede e scienza,
sostenendo la concretezza dei principi etici nei confronti di un “umanesimo
ecologico”, rispettando la dignità della persona e la bellezza che il Creatore
ha posto in tutto ciò che esiste.
In quest’ottica non si può prescindere
da una riflessione sul diritto alla vita.
Il diritto alla vita è un principio
morale basato sulla convinzione che un essere umano ha il diritto di vivere e,
in particolare, non dovrebbe essere ucciso da un altro essere umano e si pone
in dibattiti su temi di pena di morte, la guerra, l'aborto, l'eutanasia,
omicidio per legittima difesa, e la sanità pubblica.
Nella storia umana, non
c'è stata una generale accettazione del concetto di un diritto alla vita che è
innato rispetto agli individui piuttosto che concesso come privilegio da coloro
che detengono il potere politico e sociale.
L'evoluzione dei diritti
umani come concetto è
avvenuta lentamente in più
aree in molti modi diversi e lo scorso millennio in particolare ha visto
un'ampia serie di leggi e documenti legali nazionali e internazionali; esempi,
uno più lontano, l’altro più vicino, sono la Magna Carta del 1215 e la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
La
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948) individua nella loro
difesa la base per la costruzione di un mondo migliore.
Diritto alla
vita, alla libertà, all’uguaglianza di fronte alla legge, sono solo alcuni dei tanti
che abbiamo il dovere di conoscere perché questo è il primo passo per farli
valere.
In
quanto principio morale basato sulla convinzione che un essere umano abbia
diritto a vivere e non dovrebbe essere ucciso da nessun altro essere umano, in
particolare il diritto alla vita non è tema molto diverso né disgiunto dal
diritto a che sia preservato l’ambiente.
Il
diritto alla vita tocca tante materie giuridiche differenti:
·
Diritto ecclesiastico:
complesso delle norme giuridiche, poste da uno Stato, riguardanti il fattore ed
il fenomeno religioso e i rapporti fra lo Stato stesso e le diverse confessioni
religiose;
·
Diritto penale: branca del diritto pubblico che prevede
l’erogazione di sanzioni penali a chiunque commetta un reato;
·
Diritto privato: branca del diritto che regola i rapporti
intersoggettivi tra i singoli individui in relazione alla sfera patrimoniale,
personale e familiare;
·
Diritto costituzionale: branca del diritto pubblico che
si occupa dell’organizzazione dello Stato e dei rapporti tra autorità pubblica
e individuo.
Anche
in Italia il diritto inteso come insieme delle norme giuridiche si è trovato ad
occuparsi di complesse questioni implicate con il diritto alla vita: prendiamo
come riferimento il caso Oneda.
Isabella
Oneda nasce a Cagliari nel 1977 da famiglia cattolica. Dopo pochi mesi di vita
le viene diagnosticata la “beta-talassemia major”, graduale distruzione di
globuli rossi. Per sconfiggere questa malattia l’unico rimedio è effettuare
regolarmente trasfusioni sanguigne. Per due anni i genitori (cattolici)
decidono di sottoporre la figlia alla terapia.
Nel
1979 i genitori si convertono alla fede dei Testimoni di Geova, fede che
proibisce la trasfusione in quanto un cristiano che riceve trasfusione di sangue
per sua volontà non prospererà spiritualmente, e deve essere punito con
scomunica. Pertanto decidono di interrompere la terapia.
Isabella
peggiora, è vicina alla morte, il Tribunale dei Minori ordina il ricovero
coattivo: Isabella deve ricevere, e riceverà, regolari trasfusioni. Una volta
dimessa dall’ospedale la terapia viene di nuovo interrotta.
Il 3
marzo 1980 il Tribunale emette di nuovo un altro provvedimento di ricovero
coattivo, provvedimento mai eseguito. Così il 1980 Isabella viene ricoverata d’urgenza
e muore per “insufficienza cardiaca acuta da anemia”.
Il 10
marzo 1982, in seguito a diversi processi, la Corte d’Assise di Cagliari
condanna i coniugi Oneda a 14 anni di reclusione per concorso in omicidio
volontario aggravato, e, terminata la reclusione, alla libertà vigilata per tre
anni, con l’accusa di essere perfettamente a conoscenza della necessità di
periodiche emotrasfusioni, non eseguite solo per motivi religiosi; prevedendo
la morte della figlia come conseguenza inevitabile del loro comportamento,
l’hanno ugualmente accettata.
Il 13
dicembre 1983 la Corte di Cassazione emette la sentenza: nel caso preso in
esame si è verificato un conflitto tra il diritto alla vita (interesse del
minore al trattamento emotrasfusionale) e la divergente opinione dei genitori
ispirata a motivazioni di carattere religioso.
La
Corte afferma che non è in discussione il diritto soggettivo degli imputati a
professare la propria fede religiosa o a educare la figlia a tali principi, ma
è invece indubbio il diritto del minore alla somministrazione di un trattamento
terapeutico ai fini della sopravvivenza (artt. 29 e 30 Cost.).
La
Corte d’Appello di Roma nel 1986 ritiene i genitori responsabili del delitto di
omicidio colposo e, come stabilito dalla legge, stante l’obbligo dei genitori al
mantenimento della prole (art. 147 cc.), ribadisce che è a carico dei coniugi,
qualunque sia la loro fede religiosa, assicurare le cure sanitarie, necessarie
alla sopravvivenza, di cui il figlio necessita; e condanna i coniugi a 3 anni e
8 mesi di reclusione.
Queste
le opinioni emerse tra noi durante il dibattito seguito all’incontro di
formazione:
concordiamo
con i provvedimenti presi in quanto è stato violato il principio morale
fondamentale di ogni uomo. I genitori, per essere a conoscenza delle
conseguenze a cui si sarebbe andati incontro non sottoponendo la figlia a
trasfusioni, sarebbero dovuti andare oltre il loro credo religioso, poiché
qualunque Dio o Profeta si veneri non può predicare la morte. Nonostante
fossero Testimoni di Geova, per loro sarebbe dovuto venire prima il bene della
figlia mentre il rispetto del proprio credo dovrebbe in tali casi passare in
secondo piano.
Sollevando problemi ardui o informando
su ambiti non sempre conosciuti, il “Summer Camp in Law” ha costituito un’interessante
iniziativa e ha suscitato in ognuno di noi curiosità, unita a un nuovo
desiderio di approfondire i temi trattati, che orienterà le nostre scelte
future.
Elisabetta Tavaroli, 4E
Gabriele Guerrato, 3B
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