Diritto e Storia


IUS SOLI E IUS SANGUINIS ATTRAVERSO LA STORIA DELLA CITTADINANZA

Per cittadinanza si intende uno status cui l'ordinamento giuridico riconnette una serie di diritti e di doveri. La tutela dei cittadini presuppone che l’insieme dei loro diritti e doveri sia rispettato dalla comunità intera, così che venga garantita la funzionalità della società. Per esempio, perché lo studente abbia diritto allo studio, è necessario che si impegni in tale attività; perché una persona malata abbia accesso alle cure mediche, il personale sanitario deve godere da una parte del diritto al lavoro, e dall’altra deve adempiere agli obblighi, come quello di assicurarsi che siano rispettate le norme igieniche che tutelano la salute del paziente. Si può dunque pensare ad ogni cittadino come ad un piccolo, quanto fondamentale, ingranaggio di un meccanismo superiore.
Perché una persona possa godere in particolare del diritto di cittadinanza italiana, questo deve essere riconosciuto dall’ordinamento giuridico. Ciò attualmente avviene nei termini previsti dalla legge n. 91 del 1992, che, fra i vari modi di acquisto della cittadinanza, distingue due casi: il primo è l’acquisto della cittadinanza per discendenza da genitore italiano, il c.d. “ius sanguinis”; il secondo è l’acquisto della cittadinanza per nascita sul territorio italiano secondo alcune ipotesi specifiche (ius soli).
Ci sono poi altri modi di acquisto della cittadinanza: per esempio, quello per naturalizzazione, che avviene, di regola, dopo 10 anni di residenza in Italia (dopo quattro anni, nel caso di cittadini provenienti da un’altra nazione dell’Unione Europea). Un’altra via è quella del matrimonio con un cittadino italiano, in presenza tuttavia di determinati requisiti, come la residenza legale in Italia da almeno due anni dopo il matrimonio e un’adeguata conoscenza della lingua italiana. Ricordiamo anche proposte più recenti per riformare le leggi sull’acquisto della cittadinanza, quali lo “ius culturae” e lo “ius soli” temperato.
Il conseguimento della cittadinanza italiana dà inoltre diritto all’acquisizione della cittadinanza europea che permette la libera circolazione e il soggiorno nei paesi dell’UE, come stabilito dai Trattati dell’Unione Europea, e il diritto-dovere di votare oppure il diritto di candidarsi al parlamento europeo e alle elezioni comunali nello stato membro di residenza.
Nel corso della storia la cittadinanza ha assunto due forme diverse: il modello politico e quello giuridico. Nel primo caso, proposto per primo da Aristotele, il cittadino è opposto al suddito, in quanto solo il primo può partecipare alla vita politica della comunità, mentre il secondo è un mero destinatario di disposizioni e leggi emanate da altri. Tuttavia un perfetto esempio di come anche il cittadino possa essere suddito passivo di fronte al regolamento dello stato, è la visione socratica riguardo alla legge: indipendentemente dal pensiero del singolo sulle norme, queste servono ad una giustizia superiore e perciò sono imprescindibili e indiscutibili.
Occorre specificare che nel mondo greco i filosofi si occupavano, benché non come incarico istituzionale, di studiare, osservare e criticare la struttura politica e legislativa. Basti pensare a Platone che, nel Fedro e nella Repubblica, riportò la teoria dell’anima tripartita, teoria secondo la quale l’anima risultava composta da tre facoltà cooperanti così da governare ciascuna una virtù: ragione, passione e istinto. Perché la società potesse essere retta correttamente, dovevano essere i filosofi a svolgere i ruoli amministrativi, politici e legislativi, in quanto unici possessori sia della conoscenza generale sia del concetto di bene.
Ad accomunarci alle poleis greche è la differenza tra cittadinanza e residenza: un cittadino gode di diritti che un semplice residente non possiede. Però è giusto sottolineare che i flussi migratori dell’antica Grecia e quelli dell’odierna Italia sono ben diversi. Nel primo caso le migrazioni erano per lo più dovute a spostamenti di mercanti, incoraggiati e incentivati dalle città- stato, o di uomini di cultura; mentre nel secondo caso le spinte migratorie derivano dalla necessità di trovare un lavoro, dall’esigenza di fuggire dalla povertà o dalla guerra o da persecuzioni politiche. Negli ultimi due casi le persone possono avanzare la richiesta di asilo politico. In passato inoltre non esistevano leggi come il permesso di soggiorno né esistevano visti di ingresso.
Ricordiamo infine che nell’antica Grecia la stessa figura del cittadino era diversa: il cittadino doveva essere libero, nel senso di non-schiavo, e uomo, poiché gli abitanti che erano schiavi, meteci o donne erano esclusi dalla vita politica, requisito fondamentale per la cittadinanza.
Per quanto riguarda il modello giuridico, questo trova le sue radici nell’esperienza dell’antica Roma. Si pensi alla concezione di cittadinanza in quanto status legale, che dal punto di vista funzionale è rimasta immutata al giorno d’oggi. Furono proprio i Romani ad elaborare questo meccanismo giuridico-politico di integrazione. Per essi, infatti, la cittadinanza era uno statuto personale comune a tutti i cives, ossia agli individui che erano partecipi del medesimo ordinamento giuridico e che erano titolari degli stessi diritti.
Il processo di diffusione della civitas Romana ha conosciuto diverse fasi: dai rapporti tra romani e socii o tra romani e provinciali e dai diritti acquisiti dai veterani dell’esercito si giunge all’estensione generale di cittadinanza con la Constitutio Antoniniana, un editto emanato dall’imperatore Antonino Caracalla nel 212 d.C., con il quale si stabiliva la concessione della cittadinanza a tutti gli abitanti liberi dell’Impero.
Le parole “civis” e “civitas” (concittadino e cittadinanza) come concetto sono rimaste quasi immutate dal latino all’italiano, poiché la figura del civis romano è, almeno in parte, assimilabile a quella del cittadino odierno. La cittadinanza romana si configura come un insieme di tutele (provocatio) e di diritti, in particolare di diritti civili (ius commercii, ius conubii). Tuttavia quanto ai diritti politici, già a partire dal I secolo a.C. le dimensioni demografiche di Roma e il numero dei suoi cives impedivano a gran parte di essi un’effettiva partecipazione alla vita politica.
La cittadinanza romana si otteneva o per nascita in un matrimonio legittimo o per liberazione dallo stato di schiavitù. Perché la cittadinanza per nascita fosse legittima, si doveva essere concepiti all’interno di “iustae nuptiae”, che oggi tradurremmo con “matrimonio legittimo”. Ma in quali casi un matrimonio poteva definirsi tale? I coniugi dovevano innanzitutto possedere il diritto di sposarsi (ius conubii), essere sani di mente e aver raggiunto i 14 anni per i maschi e i 12 per le femmine. Il neonato, se concepito all’interno di matrimonio legittimo, avrebbe seguito la condizione giuridica del padre, altrimenti quella della madre, sia che fosse romana o straniera. Dunque, nell’esperienza giuridica romana, i concetti di matrimonio, filiazione legittima e cittadinanza erano fra loro connessi. Queste norme regolavano sia la successione ereditaria dai propri padri, sia la cosiddetta “origo”. Oggi potremmo definirla una sorta di cittadinanza locale: diversa da una doppia cittadinanza, denotava il luogo in cui il padre, o il proprio ascendente, aveva acquisito la cittadinanza romana. Dal lato maschile non ci sarebbero stati limiti nel risalire fino al predecessore che per primo aveva ottenuto la cittadinanza romana. Dal lato materno, invece, il figlio prendeva la cittadinanza che la madre possedeva al momento del parto e l’origo non veniva riconosciuta più in alto che dalla madre.
Partendo dal concetto dell’origo, furono però i giuristi medievali, a partire dal XII secolo, a elaborare il concetto dello ius sanguinis, il quale regolò, almeno in origine, l’attribuzione della cittadinanza nel Medioevo, pur sempre basandosi sul principio della filiazione; si affermò, su ogni altro meccanismo di attribuzione della cittadinanza, il principio della sua trasmissione per discendenza.
Per quanto riguarda lo ius soli, ne vediamo l’origine nel diritto feudale inglese. Fu William Blackstone, giurista e accademico britannico, che individuò come questo principio si fondasse sul vincolo dell’allegiance, ossia la relazione stabilitasi fra il suddito e il principe, quando quest’ultimo saliva al trono: il primo si impegnava alla lealtà e all’obbedienza, il secondo, in cambio, garantiva protezione. Si può ricordare come esempio di applicazione dello ius soli il Calvin’s Case del 1608, riguardante la seguente questione: un individuo nato in territorio scozzese dopo l’unione delle due corone, può essere considerato un soggetto di diritto in Inghilterra? Il dibattimento sollevato dal Calvin’s Case vide alcuni giuristi, come Edward Coke, Francis Bacon e Thomas Ellesmere cercare una risposta. Si giunse alla conclusione che chiunque fosse nato in un territorio governato del re inglese, sarebbe stato considerato come un qualunque altro suddito. I principi riconosciuti in questo caso si applicarono anche ad altri territori dell’impero britannico e grazie a ciò, nel 1857, agli abitanti liberi dell’India si attribuirono, almeno formalmente, i diritti civili posseduti da ogni altro suddito della Corona Inglese.
Anche negli Stati Uniti venne presa come modello la regola dello ius soli, che fu successivamente incorporata nel XIV emendamento della Costituzione federale Americana, approvato nel 1868.
Analogamente, in Francia, nel 1515, una decisione del Parlamento stabilì come criterio di acquisizione della cittadinanza lo ius soli. L’unica condizione fu che la residenza attuale, e soprattutto futura, fosse fissata nel territorio del reame. Ciò cambiò solo quando nel 1803 Napoleone istituì come criterio esclusivo lo ius sanguinis. Tuttavia non fu un cambiamento permanente, tantomeno duraturo, poiché nel 1889 tornò ad applicarsi lo ius soli, che è dipendente dalla nascita in un determinato territorio e non dalla discendenza da un genitore in possesso della cittadinanza.


Valentina Kule, 3E
Costanza Manfredi, 3E
Arianna Rizzi, 3E

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